Gianni Rinaldini: Crisi del sindacato o di questo sindacato?
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Gianni Rinaldini ha pubblicato il 18 dicembre 2012 questo intervento sul sito www.lacgilchevogliamo.it per aprire un dibattito a tutto campo nella Cgil.
La crisi della CGIL non può più essere sottaciuta perché siamo di fronte a processi che mutano funzione e ruolo della rappresentanza sociale. Non è possibile che ciò possa avvenire senza una chiara ed esplicita discussione sul futuro della CGIL con il rischio che si assumano nel frattempo decisioni e scelte che hanno un valore e un significato congressuale. Per queste ragioni, con questo documento voglio contribuire ad aprire un confronto a tutto campo in CGIL, una discussione di merito che possa avvalersi di contributi interni ed esterni all’Organizzazione. Non ci sono posizioni precostituite, se non l’impellente necessità di aprire questa discussione che rappresenta una condizione per un lavoro collettivo che si misuri con la dimensione della sfida che abbiamo di fronte.
Crisi del Sindacato o di questo sindacato?
Non è più sufficiente esprimere il dissenso sui diversi passaggi, scelte e accordi che caratterizzano il percorso della CGIL. Percorso dal significato generale sempre più incomprensibile, segno inequivocabile che alla CGIL difetta una propria strategia. Questo è oggi tanto più evidente perché la crisi economica, sociale e finanziaria non è un passaggio congiunturale, una fase negativa del ciclo economico cui far fronte con qualche sacrificio, con la logica del meno peggio in attesa di tempi migliori.
Al contrario, questa crisi viene utilizzata per attuare scelte che stanno strutturalmente ridefinendo, per il presente e per il futuro, l’assetto politico, istituzionale e sociale del paese. Questo avviene su base locale e globale con gli accordi e i trattati europei sul pareggio di bilancio e il fiscal-compact, che hanno un significato sociale univoco, così come le raccomandazioni e i memorandum imposti ai paesi considerati più deboli.
Tutto converge, attraverso misure legislative e accordi sindacali separati e/o unitari, verso una nuova costruzione sociale fondata sull’assunzione del mercato e della competitività come valori assoluti non sottoponibili a nessuna regolazione, cui vanno resi funzionali tutti gli aspetti della condizione umana, dal lavoro al sistema di sicurezza sociale, al rapporto con l’ambiente.
Il conflitto sociale, la mediazione come punto di incontro tra l’espressione autonoma e democratica di diversi interessi a livello aziendale, territoriale e nazionale viene negato perché sostituito dal conflitto tra le imprese. La condizione lavorativa in tutti i suoi diversi aspetti diventa una variabile dipendente dalle esigenze di ogni singola impresa, cosi come i costi sociali che sorreggono il sistema di Welfare universale sono ridotti e sostituiti con un processo di corporativizzazione. Contratti, diritti, tutele sui licenziamenti individuali e collettivi devono essere superati: la precarietà nella prestazione lavorativa e nel rapporto di lavoro rappresenta l’emblema di questa nuova costruzione sociale.
Non esiste una agenda sindacale, tanto meno una piattaforma sindacale confederale. Esiste l’agenda ed il perimetro di confronto, o meglio di informazione preventiva, definito di volta in volta dal Governo, dalle associazioni imprenditoriali e dalle singole imprese. Questo è avvenuto con le controriforme strutturali del sistema previdenziale e del mercato del lavoro, che ha generalizzato la precarietà, cancellato l’art.18, ridotto gli ammortizzatori sociali in assenza di una proposta alternativa del sindacato, che fosse in grado di unificare l’insieme del lavoro dipendente e dei pensionati. Si è scelto lo spezzatino, la frammentazione del confronto sui diversi capitoli e quindi dei lavoratori e dei pensionati coinvolti, depotenziando e non rendendo credibili le stesse iniziative sindacali, vissute con sempre maggiore stanchezza e sempre minore credibilità e influenza, come un puro atto di testimonianza.
Allo stato attuale è perfino difficile capire se esiste ancora un argine, un punto di tenuta rispetto alla devastazione sociale in atto. Nella contrattazione tra accordi separati e accordi unitari sta succedendo di tutto, dalle deroghe aziendali, all’introduzione del salario di ingresso, al proliferare dei doppi regimi, all’aumento dell’orario di lavoro.
Non esiste più un sistema contrattuale universale pubblico e privato: nel pubblico impiego vige da anni il blocco della contrattazione nazionale, nei metalmeccanici e nel commercio siamo in presenza di accordi separati mentre aumentano accordi unitari come quello dei chimici che prevedono deroghe aziendali sull’insieme della prestazione lavorativa. Le aziende private e cooperative, in particolare nel commercio, disdicono i contratti aziendali per presentare le loro piattaforme.
La FIAT, il più grande gruppo industriale del nostro paese, abolisce per decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici la democrazia, la libertà sindacale ed espelle dai propri stabilimenti la FIOM-CGIL con il consenso delle altre organizzazioni sindacali e questo non diventa un discrimine democratico nazionale per la nostra organizzazione.
La controriforma delle pensioni, che non a caso ha ricevuto l’entusiastico plauso dell’Europa, del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Centrale Europea (BCE) è semplicemente disastrosa per gli esodati e per il futuro delle nuove generazioni, mentre si sta sviluppando l’offensiva contro il sistema sanitario.
Crescono povertà, disoccupazione, lavori poveri, precariato e aree sempre più estese di popolazione senza nessuna rappresentanza sociale.
Mentre tutto cambia intorno a noi, noi rimaniamo ancorati alla normale routine delle nostre discussioni viziate dal prevalere di logiche e schieramenti tutti interni, preoccupati solo di non essere isolati dalle altre organizzazioni sindacali e dalle forze politiche di riferimento. In questo gioco di rimessa, in questo vuoto di proposta complessiva e di una conseguente pratica rivendicativa, precipitano perdita di autonomia e subalternità rispetto agli altri soggetti politici e sociali. Soggetti che peraltro nel corso di questi anni sono profondamente cambiati, profilando per sé un nuovo modello che modifica lo stesso rapporto tradizionale tra politica e sindacato.
E’ stata proprio la CGIL ad avviare la discussione su una differente interlocuzione tra rappresentanza politica e sociale con il superamento delle correnti di partito e con l’esigenza di rafforzare un’ autonoma progettualità generale del sindacato.
Un percorso che si è brutalmente interrotto di fronte al crescere delle difficoltà nel rapporto con la nostra gente e all’evoluzione della geografia politica.
L’assenza di un’autonoma strategia sindacale e politica ha determinato un processo di chiusura interna, di riduzione degli spazi di democrazia, di gestione oculata degli equilibri interni correlata con le possibili prospettive personali, di esercizio di consultazioni di lavoratori e lavoratrici dall’esito predeterminato, senza alcun controllo democratico.
Fa parte anche della storia del movimento operaio che le grandi burocrazie, di cui molti di noi fanno o hanno fatto parte, tendano motu proprio alla auto-conservazione, sostituendo all’autorevolezza dei gruppi dirigenti l’autoritarismo nella gestione dell’organizzazione. Questa deriva va fermata: non serve a nessuno negare le difficoltà del sindacato, che corre il rischio, nella crisi, di cambiare natura e funzione a sua insaputa, senza cioè che si apra una esplicita e democratica discussione sul futuro del sindacato, persino sulla sua stessa sopravvivenza.
Nel corso di questi ultimi decenni con la globalizzazione basata su scelte di totale deregolazione finanziaria e del lavoro rese possibili dalle nuove condizioni politiche internazionali e dall’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione su base informatica, si è determinata una gigantesca redistribuzione della ricchezza dal lavoro dipendente verso la rendita ed il profitto con una frantumazione del lavoro, cui ha specularmente corrisposto la massima concentrazione del potere finanziario e industriale. Una trasformazione sociale, politica, istituzionale che segna un passaggio epocale rispetto alla storia e alle conquiste successive alla seconda guerra mondiale, che hanno caratterizzato il modello sociale europeo.
Il tecnico Monti ha sempre espresso queste posizioni ed è stato scelto proprio perché ritenuto assolutamente affidabile nel perseguire questo obiettivo. Questo spiega il senso delle decisioni europee che definiscono i vincoli monetari in assenza di vincoli sociali, incentivando così il dumping sociale tra gli stessi paesi membri, compresa la concorrenza tra i lavoratori e le lavoratrici su chi offre le condizioni più convenienti per le imprese.
Il ricatto occupazionale, la precarietà, il dissesto ambientale, l’insicurezza sociale come condizione di vita e di lavoro è la rappresentazione di questo processo.
Sono messe in discussione le ragioni più profonde, fondative del movimento sindacale ed in particolare della CGIL. La crisi finanziaria economica e sociale iniziata negli Stati Uniti nel 2008 ha messo a nudo prima le difficoltà e successivamente la crisi del sindacato confederale.
Il sindacato nasce contro una pura logica di mercato. Lo stesso riconoscimento legislativo del diritto di coalizione fu conquistato dopo decenni di dure lotte perché considerato una turbativa rispetto al mercato, che considerava il rapporto di lavoro subordinato un rapporto di natura commerciale tra due “liberi” individui, che nel nostro paese si chiamava “contratto di locazione”.
L’istanza fondativa del sindacato è stata la solidarietà, il superamento della concorrenza tra i lavoratori, tra occupati e disoccupati nella costruzione della contrattazione collettiva nel lavoro e nel territorio. I Contratti Nazionali e lo Stato Sociale sono l’espressione di questo percorso di lotta e di emancipazione, proprio nella definizione di vincoli sociali contrattuali e diritti sociali universali.
Il neo-liberismo è la negazione di tutto ciò: solidarietà, uguaglianza e giustizia sociale sono incompatibili con una pura logica di mercato. Questo è il significato sociale delle misure legislative e degli accordi separati di questi anni.
L’attuale divisione sindacale non è comparabile con quella di altri momenti storici, seppure di grande rilevanza come quella sulla scala mobile negli anni ’80 o sull’art.18 all’inizio del nuovo millennio: oggi la divisione ha una natura strategica, che riguarda l’idea stessa di sindacato del futuro. L’accordo separato confederale del 2009 è stato l’atto costituente di un sindacato che abolisce la democrazia nel lavoro, demolisce sostanzialmente il Contratto Nazionale di Lavoro e individua nella crescita degli Enti Bilaterali lo strumento “necessitato” per avere un rapporto con le lavoratrici e i lavoratori.
Il recente accordo separato sulla produttività e il successivo accordo separato del CCNL dei Metalmeccanici completano il quadro di un assetto contrattuale fondato sull’applicazione dell’art.8 e dell’accordo separato del 2009.
E’ paradossale che, mentre ogni anno cresce l’imposizione fiscale sul lavoro dipendente, il Governo trovi le risorse per defiscalizzare i premi di risultato variabili legati alla produttività a livello aziendale e per agevolare la crescita dei Fondi Assicurativi dalle pensioni alla sanità. Come non vedere che si costruisce in questo modo un modello sociale che riduce i diritti universali mentre incentiva soluzioni corporative a livello aziendale e di categoria, abolisce la democrazia perché un ceto politico e sindacale decide per tutti, confina in un ruolo di totale subalternità il sindacato?
Non può essere questa la deriva della CGIL.
Per tutte queste ragioni, ritengo che sia necessario aprire a tutto campo un confronto, un approfondimento interno ed esterno alla CGIL, avvalendoci anche del contributo e delle competenze di tutti coloro che sono interessati a questo percorso di discussione. Il passato non ritorna e dobbiamo misurarci in questa fase su cosa vuole dire oggi fare vivere i valori della solidarietà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale, in un rinnovato scenario centrato sul diritto al lavoro e sui diritti nel lavoro.
Come ricostruire oggi un sindacato confederale democratico autonomo e indipendente? Un sindacato dei lavoratori e non per i lavoratori?
Una risposta compiuta a tali importanti interrogativi può derivare soltanto da un lavoro collettivo: è da qui che bisogna ripartire per tornare dare un senso e una prospettiva alla militanza sindacale. E non solo a questa: la caduta di democrazia nel sindacato è un aspetto di una organizzazione politica e sociale complessiva sempre più autoreferenziale, sempre meno articolata secondo pesi e contrappesi di quei corpi intermedi, che consentirebbero in una democratica funzione di rappresentanza di ricomporre la drammatica frattura con le persone in carne e ossa, siano essi lavoratori e/o cittadini.
Come spesso avviene in passaggi cosi rilevanti, esistono diverse possibilità, diverse opzioni fondamentali che possono vivere sotto la dizione di Sindacato. A me interessa quella che si occupa della ricostruzione di una rappresentanza sociale democratica che assuma la solidarietà e la giustizia sociale come valori, e la piena occupazione,lo sviluppo sostenibile, la redistribuzione della ricchezza e dell’orario di lavoro come obiettivi.
Il confronto dovrà necessariamente spaziare, indagare sui diversi aspetti che compongono una identità sindacale avendo come riferimento la dimensione europea, la costruzione del Sindacato Europeo. Ragionando a partire dallo scenario attuale non vi è dubbio che il superamento di gran parte delle conquiste degli anni ’60 – ’70 è stato reso possibile attraverso la cancellazione della democrazia nel lavoro.
E’ dalla democrazia nel lavoro che dobbiamo ripartire.
Il mondo del lavoro dipendente e dei pensionati è stato espropriato del diritto di esprimersi sulle piattaforme e sugli accordi che riguardano la loro condizione, con la legittimazione degli accordi separati di categoria e confederali privi di qualsiasi validazione democratica. L’accordo del 28 giugno 2011 non è sostitutivo dell’accordo separato del 23 gennaio 2009 e tanto meno annulla l’efficacia dell’art. 8, sostenuto da CISL, UIL e Confindustria, per la semplice ragione che con quell’accordo unitario si definiscono curiosamente le procedure di validazione degli accordi aziendali e non si dice nulla sulla validazione democratica dei Contratti Nazionali di categoria e confederali.
Tant’è che l’allora presidente della Confindustria ha tagliato corto: le imprese – così recita la lettera inviata ai suoi associati – hanno a disposizione per la contrattazione aziendale l’accordo del 28 giugno 2011 e l’art. 8. E adesso anche l’accordo sulla produttività. Nella storia della CGIL non è mai stato in discussione il pronunciamento delle lavoratrici e dei lavoratori interessati, le posizioni diverse si articolavano sulle modalità del pronunciamento, se attraverso il voto palese nelle assemblee oppure con il referendum e il voto segreto.
Questo è avvenuto anche nella fase dei Consigli di Fabbrica e non è mai stato vissuto come una limitazione del ruolo dei delegati, perché il pronunciamento era considerato naturale, perfino ovvio. E’ pura ipocrisia la discussione sullo strumento del referendum, che va bene quando serve a validare accordi unitari e non va più bene in presenza di accordi separati. Le piattaforme, gli accordi non sono di proprietà dei Sindacati e delle nostre controparti ma delle lavoratrici e dei lavoratori direttamente interessati.
E’ fondamentale adesso aprire una grande battaglia democratica per affermare per legge questo diritto democratico ,anche e soprattutto in presenza di posizioni diverse tra le organizzazioni sindacali. Senza questo riconoscimento, siamo all’arbitrio, alla degenerazione delle relazioni sindacali lungo un percorso senza fine nel quale sono le controparti, anch’esse autoreferenziali, che legittimano il sindacato, esposto a questo punto a tutte le avventure, perché contratti che hanno una valenza generale per iscritti e non iscritti al sindacato richiedono inevitabilmente una validazione democratica.
La certificazione della rappresentanza e della rappresentatività di ogni organizzazione sindacale è importante perché introduce un elemento di trasparenza e cogenza nelle relazioni sindacali ma non può essere sostitutiva di un diritto democratico. Il profilo di una identità democratica è decisivo, il presupposto per ragionare sul sindacato del futuro e sull’espansione della rappresentanza sociale.
Una rappresentanza erosa dalla frantumazione del lavoro, dall’estendersi della precarietà, dalla crescita di una area sempre più vasta di lavoratori e lavoratrici in condizioni di lavoro intollerabili e con retribuzioni che lambiscono la soglia di povertà. Il problema non può essere eluso e tanto meno risolto soltanto nella iniziativa delle categorie e della confederazione. Questo terreno resta decisivo per costruire le necessarie condizioni nella pratica rivendicativa per cambiare sostanzialmente la legislazione sull’accesso al lavoro e nella contrattazione per stabilizzare il lavoro precario.
Nello stesso tempo non possiamo non riconoscere che allo stato attuale le molteplici forme di lavoro precario non hanno alcuna rappresentanza sindacale e ci interrogano sulle forme e modalità di costruzione di questa rappresentanza e/o di interlocuzione con essa, con caratteristiche anche diverse dai percorsi conosciuti nel passato. In sostanza un universo tutto da indagare sulle forme e modalità della rappresentanza aprendoci al contributo di soggetti e movimenti esistenti.
Come riconquistare, come ricostruire un nuovo e diverso quadro contrattuale?
Sulla struttura contrattuale lo scenario è devastante. Non esiste più alcun meccanismo che tuteli seppur parzialmente l’insieme del mondo del lavoro dipendente. La scala mobile istituita nel ’45 è stata abolita e sostituita da un sistema contrattuale, quello dell’accordo del 23 luglio 1993, che prevedeva il recupero del potere di acquisto ogni due anni e l’impegno del Governo attraverso un atto legislativo del riconoscimento della validità erga omnes dei Contratti Nazionali. Sappiamo come è andata a finire. Ora non c’è più niente. I Contratti Nazionali attraverso le deroghe aziendali sono sempre più indeboliti e svuotati di significato, gli aumenti retributivi hanno una durata triennale con riferimento all’indice IPCA che come si è dimostrato nel corso di questi anni non ha nulla a che vedere con l’inflazione reale.
La contrattazione aziendale è diventato l’unico strumento per ottenere aumenti retributivi, variabili e legati alla produttività e redditività di ogni singola impresa. Si sta prefigurando in questo modo un Contratto Nazionale leggero, cosiddetto di cornice, che deroga a livello aziendale l’insieme della prestazione lavorativa, dall’orario all’organizzazione del lavoro, all’inquadramento. Sul piano retributivo, oltre a non essere più in discussione l’incremento delle retribuzioni, siamo alla programmazione della riduzione dello stesso recupero del potere d’acquisto.
Welfare contrattuale ed enti bilaterali sono parte sempre più significative dei contratti nazionali. Un quadro complessivo che prospetta nel presente e proietta nel futuro un aumento di tutte le disuguaglianze sociali. In questo scenario non c’è futuro per il sindacato confederale. Va ipotizzata una nuova struttura contrattuale dove il Contratto Nazionale abbia la possibilità di migliorare le condizioni retributive e normative ed i contratti aziendali e territoriali siano uno strumento acquisitivo e non peggiorativo.
Va definita una nuova relazione tra Contrattazione e Legislazione: è in questo ambito che va collocata la discussione sul reddito minimo aperta a livello europeo. Questione, questa, assolutamente diversa dalle forme e modalità di un ipotetico salario minimo garantito che va affrontato e discusso, valutando il rischio che avrebbe nel nostro Paese sulla validità erga omnes dei Contratti Nazionali. L’esistenza di 400 Contratti nazionali è una vera assurdità che funziona da oggettivo accompagnamento alla frantumazione delle condizioni materiali di lavoratori e lavoratrici.
Va ipotizzato un sistema che preveda l’accorpamento in grandi Contratti Nazionali di categoria dell’industria, dei servizi pubblici, dei servizi privati con un secondo livello a livello di Azienda o di accorpamenti di esse. Il timore che questo comporti una messa in discussione della confederalità è privo di senso perché è proprio l’attuale situazione che corre il rischio di rendere la confederalità un guscio vuoto destinato a divenire una pura articolazione della geografia politica.
Una nuova confederalità trasparente e democratica.
La confederalità non è un luogo fisico dove ci sono dei dirigenti che parlano a nome degli interessi del lavoro dipendente e dei pensionati, ma è la costante costruzione che si rinnova ogni volta dalla sintesi condivisa di una dialettica tra territori e categorie. In caso contrario la confederalità diventa una struttura piramidale e gerarchica dove le categorie sono concepite come una pura articolazione organizzativa. Si arriva in questo modo, in nome della confederalità, a ridurre tutti gli spazi di democrazia ,come se le scelte fossero patrimonio dei dirigenti confederali nazionali senza alcun coinvolgimento preventivo delle strutture sindacali.
Lo testimonia la gestione delle ultime vicende sindacali compreso il giudizio positivo espresso dalla segreteria nazionale della CGIL, sulle sostanziali modifiche dell’art. 18 da parte del Governo. Si nascondono documenti ed emergono improvvisamente testi conclusivi come quello dell’accordo del 28 giugno, con una consultazione degli iscritti CGIL priva di qualsiasi controllo democratico. Non muta il giudizio rispetto alla scelta positiva di non sottoscrivere l’accordo sulla produttività perché continua a vivere un approccio sbagliato alle trattative, come se fossero atti di ordinaria amministrazione e non avessero pesanti conseguenze nel mondo del lavoro dipendente.
Si svolgono trattative su questioni di assoluta rilevanza senza che i diretti interessati sappiano nulla e tanto meno conoscano la posizione e le proposte del sindacato, se non al termine del negoziato, in caso sia di un accordo unitario sia separato. A quel punto le stesse discussioni nel gruppo dirigente, le posizioni differenti appaiono a chi vogliamo rappresentare come posizionamenti politici, funzionali allo spettacolo mediatico e alle semplificazioni giornalistiche.
La crisi della confederalità non è altra cosa dalla crisi della contrattazione nei luoghi lavorativi e nei territori.
Qualsiasi ragionamento, al di là del giudizio di merito, sulle forme della partecipazione e/o della concertazione non ha senso se non passa dalla ricostruzione di una rappresentanza sociale fondata sulla contrattazione e la democrazia. E’ per questo che occorre fare anche della democrazia in CGIL un obiettivo strategico: vanno cambiate e rese trasparenti le regole della democrazia interna a partire dalle procedure di consultazione dei lavoratori e delle lavoratrici fino alle modalità di svolgimento dei congressi.
Queste problematiche non sono esaustive e vanno completate; ma sono certamente importanti per delineare la discussione sul futuro del Sindacato da promuovere, con iniziative nazionali e territoriali, anche con altri soggetti, fondazioni e associazioni che siano interessati a questo percorso.
Roma, 18 dicembre 2012
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