Una settimana dalla parte dei prigionieri palestinesi
Si è conclusa nei giorni scorsi la settimana internazionale di iniziative dedicate al tema dei prigionieri politici palestinesi, circa sei mila uomini e donne agli arresti da parte di Israele ai quali sono negati i fondamentali diritti civili e umani. Fra questi diversi sono bambini, e questo è sicuramente – insieme alla detenzione amministrativa illimitata – uno dei motivi che rendono questo strumento di oppressione particolarmente ignobile e feroce.
In Italia si sono svolte decine di iniziative, tantissime, fra le quali il convegno organizzato da Assopace e diverse altre organizzazioni con il figlio di Marwan Barghouti, il sit-in davanti il Colosseo, a Roma, promosso dalla Rete dei Comunisti e da altre sigle e altri incontri come quello di Milano e Bologna. Una mobilitazione assolutamente adeguata alla gravita della condizione di questi prigionieri che però si è scontrata con un silenzio ottuso e assordante da parte delle istituzioni, italiane quanto di quelle internazionali.
Il figlio di Marwan Barghouti in particolare ha sottolineato la condizione delle famiglie dei prigionieri e il valore dello sciopero della fame che alcuni di essi stanno mettendo in atto a rischio della propria stessa vita. Il popolare leader di Fatah Marwan Barghouti è certamente – insieme al segretario del Fronte popolare Ahmad Sa’dat – il più famoso prigioniero palestinese e oggi potrebbe rappresentare come nessun altro un elemento di unità per l’intero popolo di Palestina. Probabilmente proprio per questa sua rilevanza lo stato di Israele da oramai un decennio si accanisce contro di lui. Una condizione che fa di Marwan una sorta di Mandela palestinese intorno al quale l’intero popolo palestinese spera un giorno di trovare la propria libertà e indipendenza.
Ma il tema dei prigionieri non può limitarsi a questa seppur importante settimana, che fra l’altro ha incrociato in Italia la presenza di una folta delegazione di giovani palestinesi provenienti da Gaza. Infatti lo sciopero della fame che sta portando alla morte molti prigionieri rappresenta nello stesso tempo una denuncia determinata e un atroce dramma. Issawi come altri infatti rischiano la propria vita per reclamare da Israele quei diritti che la legalità internazionale vorrebbe rispettati, ma che nel caso dello stato ebraico sembrano polvere all’aria.
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