Home Attualità Esteri Trelew, quando la dittatura argentina fucilò il sogno di libertà
Trelew, quando la dittatura argentina fucilò il sogno di libertà

Trelew, quando la dittatura argentina fucilò il sogno di libertà

167
0

Trelew, quando la dittatura argentina fucilò il sogno di libertà


 

di Sabatino Annecchiarico (*)  

 

Quarantuno anni sono passati dal 15 agosto 1972, tanti in un’intera vita, molti di più che 26: era l’età media che avevano i diciannove combattenti per la liberazione dell’Argentina dalle dittature e dalle politiche imperialiste, assassinati a Trelew. Di essi, sedici furono fucilati in una base della marina militare prima dell’alba del giorno 22 agosto e gli altri tre, pochi anni dopo, ingrossarono l’elenco dei desaparecidos. Il dittatore era il generale Alejandro Lanusse.

 

Quarantuno sono gli anni trascorsi da quel tragico giorno ancora fisso nella memoria di chi ha vissuto, fine Novecento, quel periodo tristemente storico per l’Argentina.

Il 15 agosto 1972 era la data fissata per un’evasione di oltre cento prigionieri politici incarcerati nell’Istituto penitenziario di massima sicurezza, U-6, di Rawson, nel cuore della Patagonia sulle sponde dell’Atlantico. Carcere duro, ardua sopravvivenza.

 

Per un banale errore di comprensione dei codici fra gli organizzatori della fuga dislocati all’esterno del carcere con i detenuti, solo venticinque riuscirono a oltrepassare i muri dell’unità penitenziaria. Di questi 25 appena 6 riuscirono a evadere effettivamente: sequestrarono, secondo i piani prefissati, un aeroplano BAC 1-11 della compagnia aerea Austral nell’aeroporto di Trelew, distante soli 20 chilometri direzione nord dal carcere. Quell’aereo doveva portare tutti i cento prigionieri in Cile, il cui presidente era Salvador Allende. Purtroppo solo 6 riuscirono ad abbordarlo dirottandolo in Cile, dove li attendeva Salvador Allende il quale, poi, facilitò il viaggio per completare la fuga verso Cuba. Gli altri 19 che riuscirono a evadere vennero catturati nello stesso aeroporto e portati nella base della marina militare Almirante Zar, di Trelew: avevano perso l’aereo per pochi minuti per le stesse complicazioni della fuga, il camion che li trasportava dal carcere arrivò in ritardo all’ora fissata. Un ritardo che i 19 pagarono con la vita in quella maledetta base militare di Trelew, dove furono freddamente fucilati. Solo tre si salvarono per caso ma persero la vita successivamente: Alberto Miguel Camps, poi ucciso nel 1977; María Antonia Berger, scomparsa dal 1979 e mai ritrovata (una dei 30 mila desaparecidos); Ricardo René Haidar, scomparso nel 1982 (un altro desaparecido).

La storia di questa evasione, in gran parte fallita, è tuttora oggetto di studio. La storia di quegli uomini e donne fa parte della storia contemporanea argentina.

Diciassette giorni dopo la fucilazione, l’8 settembre 1972, un pool di avvocati presentò alla stampa le dichiarazioni dei sopravvissuti quando ancora erano ricoverati in ospedale dalle ferite da pallottole ricevute la notte del massacro. In onore e in memoria di tutti i caduti di quella giornata, ritengo opportuno trascrivere alcuni passaggi di una di queste dichiarazioni. Le tre testimonianze presentate allora furono incluse anni dopo nei faldoni giudiziari del Tribunale della città patagonica di Comodoro Rivadavia, al sud di Trelew, dove si svolse il processo giudiziario nel 2012.

FRAMMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI RICARDO RENÉ HAIDAR:

 

«Quando siamo arrivati all’aeroporto di Trelew, dopo la fuga dal penale di Rawson (N.d.A: Si riferisce solo ai 19 dei 25 che riuscirono scappare) e visto che l’aereo era già partito, ci rimasero solo due alternative. Una delle possibilità era di disperderci nella pianura desertica della Patagonia. Ovviamente questa possibilità l’abbiamo immediatamente scartata in quanto le caratteristiche geografiche della zona erano avverse e potevano facilmente rintracciarci e ucciderci senza alcuna possibilità alla resa e senza testimoni. In conseguenza abbiamo optato per arrenderci nello stesso aeroporto, esigendo la massima sicurezza possibile. Chiedemmo di poter parlare con i giornalisti […] con un giudice e un medico […]. Come di dominio pubblico, tutto ciò è stato fatto alla perfezione. Abbiamo creduto che fosse sufficiente per assicurare le nostre vite[…]. Per quanto abbiamo poi capito, non è stato così. […] Siamo stati condotti alla base della marina militare, dove siamo rimasti isolati senza alcuna possibilità di comunicare con nessuno. Siamo stati accompagnati dal giudice Federale, il dottor Amaya. Appena arrivati ci misero di due in due nelle celle […] il primo giorno il trattamento che ci riservarono fu buono, persino ci avevano dato un materasso e una coperta (NdA: Nel mese di agosto in Argentina è pieno inverno e in Patagonia il freddo è polare). Questo trattamento durò poco. […] La notte del giovedì ci tolsero i materassi e le coperte e cominciarono le punizioni fisiche […] facendoci coricare sui pavimenti freddi completamente nudi. Ci interrogavano tutte le notti fra le 2 e le 5 del mattino. Mario Pujada (NdA: uno dei prigionieri) fu particolarmente maltrattato. Una sera gli fecero pulire i corridoi del carcere completamente nudo. […] La notte del lunedì 21 agosto fu diversa, ci permisero di coricarci presto, alle 23 circa, però alle 3 e 30 siamo stati svegliati violentemente dal capitano Sosa e dall’ufficiale Bravo. […] Un caporale aprì cella per cella. Man mano che ci alzavamo ci misero contro il muro con l’obbligo di guardare il pavimento […] Alcuni minuti dopo ci ordinarono di formare due file nel corridoio davanti le celle, con lo sguardo verso la porta d’uscita. Eravamo, ognuno di noi, davanti l’ingresso della propria cella. Nell’estremo del corridoio c’erano due o tre sottufficiali armati con i mitragliatori PAM (NdA: Il mitragliatore PAM, di fabbricazione argentina, è di calibro 9 mm e ha una potenza di fuoco di 650 colpi/minuto. Il caricatore porta 25 pallottole). L’ufficiale Bravo e il capitano Sosa controllavano che le due file fossero ben sistemate percorrendole avanti e indietro. Nel percorrerle ci riempivano di insulti e minacce […] tra cui “ora vedrete cosa è il terrore antiguerriglia”, ecc. Noi eravamo in silenzio. Nessuno contestava. Nessuno si muoveva. Si sentiva solo il rimbombo delle loro voci. Quando Sosa e Bravo finirono il loro tragitto di controllo, in modo completamente a sorpresa e senza che ci fosse il minor incidente, iniziò la sparatoria con le mitragliatrici. Guardai verso l’estremo aperto del corridoio e vidi cadere Susana Lesgart e Clarisa Lea Place. Girai rapidamente e m’introdussi nella mia cella. Dietro di me fece lo stesso il mio compagno di cella. Lì siamo rimasti Kohon ed io, per qualche istante in piedi, ascoltando le raffiche dei mitra. Bonet (NdA: un altro detenuto caduto in corridoio) era appoggiato sul gomito destro e ci guardava in silenzio[…] Vidi cadere Bonet e Toschi[…] Immediatamente Kohon e io ci siamo buttati per terra sotto la soletta di cemento che faceva da letto […] bocca in giù. Poi ascoltammo il vocione di Bravo “Questo è ancora vivo” e uno sparo isolato di pistola. […] Bravo entrò nella nostra cella e ci ordinò di metterci in piedi. Ubbidimmo. Bravo ci chiese “Adesso farete delle dichiarazioni come si deve?”. Kohon ed io rispondemmo di sì. Bravo si ritirò dalla cella e immediatamente entrò un altro ufficiale, il cui nome potrebbe essere Fernández e senza mediare nulla mi puntò alla nuca. Istintivamente mi girai nell’esatto momento in cui partì il colpo. Ricevetti l’impatto nell’emisfero superiore del torace subito sotto la clavicola. L’impatto mi sollevò dal pavimento e mi fece cadere sul letto di cemento con le ginocchia appoggiate per terra […] Poi udii gli spari contro Kohon. Ci fu un lungo silenzio. […] Poi nuovamente sentii la voce di Bravo che diceva ad altri “Volevano evadere di nuovo” […] Più tardi, qualcuno mi sentì il polso e disse “Questo ha il battito buono” e mi portarono all’ospedale della Base […] dove mi operano alle 21 di quel giorno. […] Poco tempo dopo arrivò il giudice e feci le dichiarazioni su quanto avvenuto. […] All’indomani, leggendo i giornali in cui si pubblicarono le dichiarazioni dell’ufficiale Hermes Quijada verificai le menzogne. Tutto ciò che fu pubblicato era falso […] Fu un massacro premeditato contro diciannove prigionieri disarmati e non un nuovo tentstivo di fuga».

LA SENTENZA

 

Appena dieci mesi fa, il 15 ottobre del 2012, il Tribunale orale di Giustizia federale di Comodoro Rivadavia, in Patagonia, condannò a “Prigione perpetua per crimini di lesa umanità” il capitano Luis Sosa e l’ufficiale Alfredo Bravo assieme a tutti gli altri responsabili del genocidio. La sentenza fu pronunciata nello spazioso Centro Culturale José Hernández di Rawson, città del penitenziario. Presente alla lettura della sentenza una folla tra familiari, amici delle vittime, numerose rappresentanze di associazioni

L’ufficiale Bravo era riuscito a scappare, prima della sentenza, per rifugiarsi negli Stati Uniti, dove tuttora risiede da libero cittadino. La giustizia argentina chiese l’estradizione, senza avere risposta.


 

 

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia, pochi minuti dopo – di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 22 agosto fra l’altro avevo ipotizzato:1791: rivolta ad Haiti;1864: prima convenzione di Ginevra, nasce la croce Rossa; 1962: attentato OAS a De Gaulle; 1978: muore Kenyatta; 1989: muore in circostanze oscure Huey Newton; 1998: cardinal Giordano indagato per usura; 2007: muore Bruno Trentin. E sul 21 agosto c’erano questi appunti di lavoro: la ribellione di Nat Turner nel 1831; scontri fra brasiliani e immigrarti italiani nel 1896; rubata «La Gioconda» nel 1911 (in blog ho già raccontato questa stranissima storia); nasce Gogliardo Fiaschi nel 1930; muore Gianni Bosio nel 1971 e lo stesso giorno viene ucciso George Jackson; a Praga nel 1989 «Charta 77» manifesta; Marcello Pera nel 2005 resuscita i fantasmi fascistoidi del meticciato. Invece sul 23 agosto le ipotesi ertano: la giornata contro la «tratta»; 1572: strage di san Bartolomeo; 1868: nasce Edgar Lee Masters; 1939: patto Ribentrop-Molotov; 1972: in Francia ritirato il talco assassino; 1973: famosa rapina a Stoccolma (quella della «sindrome»); 1987: gli squadroni della morte colombiana uccidono Hector Abad Gomez; 1989; un milione di persone fra Tallin e Vilnius; 1993: soldi “sporchi” per l’emergenza rifiuti; 1996: 300 sans papiers cacciati dalle chiese di Parigi. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.

 

Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

 


Fonte: http://danielebarbieri.wordpress.com/2013/08/21/scor-data-22-agosto-1972/


 

(167)

LEAVE YOUR COMMENT

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

Vai alla barra degli strumenti