La Russia e l'Occidente: Cento anni (o giorni) di solitudine
di Igor Pellicciari*
Gli stereotipi europei e statunitensi su Mosca offuscano le analisi dell'operato di Putin. Demonizzare il Cremlino come ai tempi dell'Urss non risolverà la crisi in Ucraina.
Il discorso di Putin sullo stato della Federazione Russa è nuova occasione per fare delle considerazioni sullo scontro russo-americano-europeo che si gioca in Ucraina. Parlare di crisi russo-ucraina (termine di riferimento corrente) distoglie dai reali contendenti in campo.
Oramai siamo alla contrapposizione di argomenti cristallizzati, per non dire cronicizzati. La ricerca del chi-ha-ragione, tipica degli inizi di ogni crisi, è stata superata dalla difesa a oltranza delle posizioni da entrambe le parti. L’analista resta in questa fase interdetto nel commentare avvenimenti in così rapida evoluzione. Il rischio è di essere presto smentiti da accelerazioni militari sul campo; oppure di subire la frustrazione di vedere dimenticate o peggio derubricate come scontate le audaci previsioni da lui fatte ex ante in tempi non sospetti e rivelatesi corrette.
Le previsioni giuste diventano ex post banali e figlie di tutti, mentre quelle sbagliate restano irrimediabilmente orfane, disconosciute in primis dai loro genitori. Dopo aver rivendicato con amara soddisfazione quanto scritto mesi fa su questo sito, quando ci soffermammo su luci e ombre della visione russa della crisi ucraina, oggi concentriamo l’attenzione sul versante occidentale. In particolare, sui più diffusi stereotipi sulla Russia, che aiutano a etichettare la crisi più che a risolverla. Ciò servirà non tanto a cercare facili verità (che incredibilmente ancora in molti sembrano offrire), quanto a interrogarci sul tipo di rapporto che l’Europa dovrebbe instaurare con Mosca.
Dal pericolo rosso al pericolo russo
Difficile smentire Vladimir Putin quando si lamenta che, se non fosse stato per l’Ucraina, l’Occidente avrebbe trovato qualche altro argomento per mettere in cattiva luce la Russia e la sua politica. Un eccesso di criticismo ha da sempre contraddistinto le narrative europee sulle vicende russe, in politica estera come in quella interna, finanche nelle cronache di vita quotidiana.
Questo accade da molto prima della crisi in Ucraina: senza soluzione di continuità dal periodo sovietico, retaggio della vecchia retorica sul "pericolo rosso" che ha resistito fino a oggi. Gli stessi media occidentali invitano esperti del periodo sovietico a commentare gli avvenimenti della Russia odierna, come se si trattasse in fondo della stessa realtà. Un po’ come se negli anni Sessanta, per spiegare il boom economico italiano, ci si fosse appellati esclusivamente a conclamati esperti sul periodo fascista.
Ne consegue che le analisi sulla Russia di oggi, che si badi bene non necessariamente sono sbagliate, sono figlie di un pregiudizio a monte: "se c'è un problema o incidente che interessa il Cremlino, la prima indiziata è comunque Mosca". Queste analisi portano sempre a un outlook negativo a valle: "la Russia probabilmente farà di tutto per peggiorare la situazione piuttosto che migliorarla". Eppure a irritare Mosca non sono tanto la sostanza delle critiche, quanto i toni paternalistici che accompagnano l’informazione occidentale, concentrata sulla parte vuota del bicchiere russo e su quella piena dell'altro versante.
Questa ipocrisia istituzionale è una sorta di “peccato originale” intollerabile in un paese che si considera, per così dire, un hockey State (gioco duro ma regole chiare) e che per cultura politica sbandiera, piuttosto che dissimulare, le proprie scelte.
Politica di potenza o di prepotenza?
Legata al punto precedente è la costante raffigurazione della Russia non come attore di potenza, ma piuttosto di prepotenza nel momento in cui scende a difesa dei propri interessi – peraltro dichiarandolo apertamente. I media e la cultura occidentale da tempo hanno accettato che la difesa della nazione non necessariamente significa nazionalismo (in fin dei conti lo Stato nazione è nato in Europa), ma questa considerazione vale solo se applicata ai membri della sua comunità.
La tutela dell’impero da parte della Russia le è invece da subito valsa l’accusa di perorare un imperialismo militare tout court. Cadono nel vuoto le contro-argomentazioni russe che, non negando le proprie azioni di potenza (appunto perché Mosca raramente si appella alla retorica del buon governo), fanno notare l'attitudine auto-assolutoria per simili atti a difesa dell’impero da parte degli Usa, cioè della parte che domina incontrastata il fronte occidentale e ne detta la linea strategica.
Questo stereotipo sulla prepotenza russa non è venuto meno con l’allargamento a Est dell’Unione Europea; al contrario, ne è uscito rafforzato. Accantonata molto presto la convinzione tra i vecchi paesi dell'Ue che i nuovi membri (Polonia e baltici in primis) avrebbero portato un maggiore expertise sul continente russo grazie alla loro storica vicinanza, si può prendere atto che essi in realtà hanno contribuito a estremizzare le posizioni europee contro il Cremlino.
Scottati e ossessionati anch’essi dal periodo sovietico, questi paesi hanno prima cercato lo scontro con Mosca, provocandone l'ovvia reazione, per poi sventolare quest'ultima come prova della sua pericolosità davanti agli occhi stupiti dei vecchi membri dell'Ue e cercare di inasprire ulteriormente le posizioni anti-russe. Anche a rischio di fare passaggi goffi, come quando i paesi baltici (?!) cercano di convincere la Finlandia a entrare formalmente nella Nato. Curiosamente, benché secoli di storia abbiano mostrato che il muro contro muro non sia mai stato vincente contro Mosca, gran parte dei media oggi rilancia la retorica della battaglia alla prepotenza russa per dirci che questa sarà la volta buona.
I russi spiano, l’Occidente fa intelligence
Punto ricorrente delle narrative negative sulla Russia è il fatto che Putin provenga dalle fila dei servizi segreti. Accanto all’immagine abusata e ripetitiva dello zar uomo-solo-al-comando, i media si sono sbizzarriti a richiamare tutto l’armamentario dei vecchi cliché sulla spia venuta dal freddo, uno dei capisaldi della retorica negativa su Mosca. Per paradosso, questa narrativa predominante non ha subito flessioni nemmeno dopo i recenti casi Wikileaks e Datagate, quando disorientate opinioni pubbliche occidentali hanno scoperto quasi per caso che i loro governi paladini della libera informazione e della sbandierata privacy sono in realtà per decenni ricorsi a strumenti di spionaggio sui propri concittadini.
È andata in corto circuito la retorica del noi vs loro, in cui i primi scendevano sul campo dell’intelligence solo in funzione di controspionaggio in risposta alle invasioni di campo degli avversari. Tuttavia, l’idea che la Russia sia sempre stata e sia a tutt’oggi la madre di tutte le spie – in particolare di quelle cattive – è dura a morire sui media che continuano a dare copertura sbilanciata ad avvenimenti all’apparenza simili a seconda che riguardino l’intelligence russa o quella dei paesi occidentali.
Episodi con responsabilità accertate come la caccia ad Assange e Snowden, il rapimento di Abu Omar, le pratiche di torture a Guantánamo o i ripetuti errori di intelligence nel Medio Oriente scivolano e scompaiono nelle pagine interne dei giornali. I titoli di apertura sono dominati da casi peraltro dai risvolti ancora non del tutto chiari, come quelli di Litvinenko, Berezovskij, Khodorkovskij o più recentemente degli scontri in Ucraina orientale.
Soprattutto, mentre gli episodi che riguardano la Russia vengono aggregati ed elevati a indicatori sullo stato di salute della Federazione, quelli che concernono l’Occidente vengono affrontati separatamente, come una serie sfortunata di circostanze scollegate tra di loro.
Sulle Pussy Riot giudichiamo Putin e la Russia, su Guantánamo a mala pena esprimiamo una critica su una parte della Cia. Curiose, infine, le argomentazioni delle autorità americane che, obbligate a giustificarsi per il Datagate, dichiarano che chi nulla ha da nascondere, nulla ha da temere a essere spiato dalle proprie autorità. Mutatis mutandis, queste sì sono le stesse parole che usava il Kgb con i "tovarishi" ai tempi di Brezhnev.
Guerra fredda o inverno al caldo?
È vero, le sanzioni hanno colpito la Russia e lo stesso Putin le ha messe in relazione alla recente tempesta valutaria che ha coinvolto il rublo. La narrativa occidentale non ha tardato a sottolinearlo, ma ha omesso di dire se esse siano realmente efficaci, ovvero se siano riuscite a modificare la politica estera russa o ad accelerare il cambio di leadership a Mosca – due obiettivi chiave per cui erano state introdotte.
Per quanto a dicembre 2014 sia ancora prematuro esprimere un giudizio definitivo su entrambi i punti, i media occidentali intanto tacciono sui numeri veri della nostra dipendenza energetica dalla Russia (molto più alti di quanto si creda) e non sottolineano a sufficienza che entrare in una nuova guerra fredda mette in seria discussione i nostri futuri inverni al caldo. In aggiunta, essi si ostinano a pretendere che la fornitura russa dell’energia debba restare distinta dagli sviluppi politici ucraini e a stigmatizzare il Cremlino quando mette le due cose in aperta relazione.
Come se l’uso politico dell’energia – per chi ce l’ha, s'intende – sia da considerarsi legittimo solo per i membri della Nato. Da questo punto di vista è un cameo la reazione europea e italiana all’annuncio (fatto da Putin, vorremmo sottolineare, non da Juncker) della cancellazione del progetto South Stream. Si è passati da un grottesco “è una vittoria delle sanzioni europee” all’infantile italiano “tanto ne possiamo fare a meno”. Come se per Eni avere compromesso – forse definitivamente – il suo ruolo di cavallo di troia di Gazprom in Europa (che era una delle vere partite in gioco) sia roba di poco conto. Se questa è una vittoria, c’è da rabbrividire al pensiero di cosa siano le sconfitte.
Cento anni (o giorni) di solitudine?
La narrativa non tarda a definire come mondiale quello che in realtà sembra più un isolamento della Russia da parte degli Usa e della Ue. La ricerca quasi ossessiva degli aneddoti di un Putin evitato dagli altri leader al recente G-20 in Australia è emblematica di un giornalismo pronto a ricorrere a evidenti forzature. Esempio eclatante è la vicenda della foto del presidente russo "abbandonato" da solo a un tavolo – mentre in verità si tratta di una pausa dei lavori e comunque è in compagnia della collega brasiliana, Dilma Rousseff.
Questa narrativa non tiene conto che la Russia, uscita da decenni di chiusura sovietica, teme meno l’isolamento e la stessa crisi economica di quanto non lo faccia l’Europa e che il vero risultato ottenuto finora è una campagna diplomatica senza precedenti del Cremlino verso i restanti paesi del gruppo Brics e dintorni.
Da Pechino a Nuova Delhi passando per Ankara, la Russia ha dimostrato che il suo leader è pronto a muoversi di persona e velocemente anche in trasferta se necessario; a offrire ai vecchi competitor, ora nuovi partner, condizioni vantaggiose prima per loro impensabili. La domanda ossessiva e ricorrente nei circoli diplomatici su quanto riuscirà il Cremlino a resistere all’isolamento e alla crisi economica può essere ribaltata e riferita all'Unione Europea stessa e ai suoi Stati membri che hanno tradito attacchi di panico per via delle contro-sanzioni russe.
Legata mani e piedi alle scelte di Washington finanche nelle strategie geopolitiche minori – come dimostra con candida e brutale semplicità la vicenda del dirottamento dell’aereo presidenziale di Morales – all’Unione Europea non resta che pagare il conto del suo inutile (e un po’ rococò) protagonismo burocratico e subire a malincuore il nuovo superamento a opera della Nato, promosso e voluto ancora una volta dalla diplomazia americana.
Con malcelata irritazione, Bruxelles fa finta di non vedere che dietro le quinte i suoi Stati membri negli ultimi mesi stanno moltiplicando, a ritmi senza precedenti, gli incontri diplomatici bilaterali con Mosca. Nel suo rapporto con la Russia, l'Ue ricorda quell’amante esasperato che in una canzone balcanica cantava alla sua bella: “vattene, scompari dalla mia vista, che io non ti veda più. Vai via. Ma per un giorno, massimo due”.
*Professore presso l'Università del Salento, corrispondente di International Affairs –(22/12/2014)
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