Ieri è venuto a mancare Michele Ferrero, colui che ha reso il marchio Ferrero uno dei più famosi al mondo e sicuramente il più importante a livello italiano. Questo perché, prima di tutto, non si è mai dimenticato delle sue radici, della sua terra e del grande contributo che questa ha dato e ricevuto alla e dall’azienda di famiglia.
“Che mondo sarebbe senza Nutella?” è probabilmente lo slogan pubblicitario più famoso in Italia, sicuramente quello che più è sopravvissuto al mutare delle strategie di comunicazione nell’ambito promozionale. Fino a qualche anno fa ancora circolavano i vari “Che cosa vuoi di più dalla vita? Un Lucano”, “Averna, il gusto pieno della vita” (che in una delle ultime sue versioni aveva come base musicale I don’t want to miss a thing degli Aerosmith), mentre a viaggiare in parallelo con quello della Nutella, sebbene con meno efficacia e diffusione nel linguaggio comune, vi sono “Svizzero? No, Novi”, ed “Amaro Montenegro, sapore vero”. Sottovalutare questo tipo di arte soltanto perché asservita al potere economico sarebbe da ottusi, soprattutto in un periodo in cui ormai le pubblicità puntano solo più sull’immagine, spesso utilizzando il sesso come veicolo ideale per promuovere marchi e prodotti. Ne sono un esempio eclatante le pubblicità riguardanti i profumi, dove, nell’impossibilità data da qualsiasi mezzo di diffusione di messaggi pubblicitari (che sia la tv, internet, i giornali, la radio), ad una canzone accattivante e coinvolgente (chissà come mai quasi sempre rock…) vengono associate immagini di donne e uomini semi-nudi pronti ad unirsi in un amplesso alla prima goccia di profumo. Non so quanta efficacia abbiano queste pubblicità, ma sicuramente quelle che venivano accompagnate da slogan accattivanti, talvolta simpatici (come quello dei Pennelli Cinghiale “…Non ti serve un pennello grande, ma un grande pennello”), sono rimaste nella memoria collettiva, andando a creare una vera e propria antologia della pubblicità.
Tornando però alla Nutella, ed all’azienda che la fabbrica, la Ferrero, ci troviamo ad affrontare un discorso che spesso ha animato i miei primi anni di interesse politico, quando con ragazzi più o meno della mia età mi trovavo a difendere questo marchio (sia per l’affetto che provo nei suoi confronti sia per la forte differenza che c’è tra la Ferrero e la maggior parte delle multinazionali di successo), sottolineando la grande opera che la famiglia ha promosso sin dagli albori. Per comprendere a pieno cosa sia la Ferrero, si potrebbe mutuare il motto che la società calcistica del Barcellona ha adottato: “Barcelona. Mas que un club”, ovvero “Barcellona. Più che una squadra”. La Ferrero è più che un’azienda, più che una multinazionale. Fondata nel 1946 ad Alba, cittadina del cuneese (il Piemonte, giusto per rimanere coordinati agli slogan precedenti, non è solo la Fiat), è sempre stata attiva nel territorio, non solo per quanto riguarda gli investimenti e le vendite, che nel giro di pochi anni si sono allargate prima in scala nazionale e poi a livello internazionale, ma anche per quanto riguarda il sociale, dando vita ad un vero e proprio sistema di welfare dedicato ai propri dipendenti ed aiutando il contesto locale per far sì che potesse venirsi a creare un’isola felice. Lo stesso modello è stato riproposto in ogni contesto in cui Ferrero si è trovata ad investire, dapprima in Italia e successivamente nel resto del mondo, finanziando pozzi, scuole, attività volte al sociale in Africa (Pietro Ferrero è morto in Sud Africa, in un sobborgo di Città del Capo, durante una missione di lavoro che aveva per l’appunto come scopo quello di promuovere alcune attività volte all’assistenza ed alla crescita dei contesti africani in cui la Ferrero si era insediata), senza mai dimenticare le proprie radici, senza mai pensare nemmeno una volta di distruggere il lavoro fatto in Italia, come invece la Fiat ha fatto e sta facendo.
Non per nulla la Ferrero più volte è stata oggetto di critiche e di tentativi di sabotaggio da parte delle altre multinazionali, che più di una volta hanno cercato di infangarne il nome mettendo in dubbio la sanità dei suoi prodotti, contestandone i modi di agire, con lo scopo di farne abbassare il valore commerciale per poi prelevarla con pochi soldi (la Nestlé è maestra in questa lurida arte, basti vedere quante aziende italiane del settore dolciario sono passate sotto il suo controllo). La storia della Ferrero è simile a quella della Olivetti, il suo modus operandi è simile a quello teorizzato, ma mai messo in pratica, da Mattei. Tre imprenditori illuminati, tre grandi progetti.
Uno solo di questi continua a farsi a valere, continua ad esistere, forse proprio grazie ad una famiglia che è sempre stata unita e che dall’inizio della sua storia ha saputo offrire ottimi servizi ai propri dipendenti ed ottimi prodotti ai suoi clienti, imponendosi con i fatti e non con le parole o con i magheggi economici a livello mondiale, in barba alle aziende competitrici, sia del settore sia di altro tipo, che l’han sempre vista come un qualcosa da distruggere perché modello di una realtà attuabile, sperabile. Sperabile però da parte di chi le mani se le sporca lavorando, non da parte di chi se le sporca con il denaro.
Ieri è morto a 90 anni colui che ha fatto diventare un piccolo laboratorio di pasticceria di Alba uno dei marchi più famosi di dolciumi, Michele Ferrero. Non era già più presidente dell’azienda di famiglia, che già nel 1997 era passata di mano ai figli Giovanni e Pietro (e dal 2011 solo più a Giovanni, data la prematura scomparsa di Pietro), un altro gesto, per quanto simbolico, di estrema oculatezza e lungimiranza. Resta il padre della Nutella, nonché lo zio di molti italiani che, come me, sono cresciuti a pane e nutella, che nella nutella hanno espresso il loro amore o soffocato la propria tristezza, e che con la nutella hanno festeggiato compleanni, hanno fatto sorridere figli, compagne e compagni, genitori.
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