UE o Brexit: una falsa alternativa per i lavoratori
L’esito del referendum britannico e la lotta anticapitalista contro l’UE
Analisi del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL)
L’uscita della Gran Bretagna dalla UE apre un nuovo capitolo della crisi dell’Unione degli stati capitalisti del vecchio continente.
Da tempo a cavallo tra integrazione e dissoluzione, la UE ha visto moltiplicarsi nell’ultima fase le spinte disgregatrici. Il combinato della crisi capitalista, della prolungata stagnazione, della profonda crisi di consenso delle politiche di austerità ha sospinto un approfondimento delle contraddizioni nazionali nella UE . Il fiscal compact è virtualmente fallito senza che si delinei un nuovo equilibrio. L’Unione bancaria resta al palo, col rifiuto tedesco di una assicurazione europea sui depositi, mentre l’intero settore bancario europeo è investito da nuovi venti di crisi (crisi dei crediti deteriorati in Italia, crisi dei derivati nella finanza tedesca e nordica). Il riconoscimento o meno della Cina come economia di mercato amplifica il contrasto tra capitalismo tedesco (disponibile) e interesse opposto di Italia e Francia, minacciate sul proprio mercato interno dalla concorrenza asiatica. La pressione migratoria – fattore strutturale di lungo periodo – sospinge processi combinati di rinazionalizzazione dei confini, con la dissoluzione del blocco est-europeo a trazione tedesca e nuovi processi di polarizzazione politica xenofoba all’interno di diversi paesi. Fattore a loro volta di nuove spinte centrifughe e di effetti politici destabilizzanti all’interno dei diversi paesi dell’Unione.
La Brexit è stata un effetto di questo quadro generale di crisi, e al tempo stesso concorre ad approfondirlo.
LA NATURA DELL’OPERAZIONE CAMERON. LA CITY A FAVORE DEL REMAIN
Lo scontro interno alla Gran Bretagna tra “remain” e Brexit ha visto affrontarsi su opposti versanti forze ugualmente nemiche dei lavoratori britannici e dei lavoratori europei. Sia sul fronte politico, sia sul fronte sociale.
Sul fronte politico, David Cameron ha ideato il referendum sull’appartenenza della Gran Bretagna alla Unione Europea in funzione del proprio rafforzamento nel partito conservatore e nel governo, contro i propri avversari interni, lungo la linea di continuità dell’attacco ai lavoratori britannici. Prima la promessa del referendum, poi il negoziato con la UE, infine la campagna a favore del remain brandendo le “concessioni” ottenute in sede UE (contro i diritti sociali degli stessi immigrati comunitari), hanno perseguito un solo obiettivo: incassare il plauso popolare per coronare la propria ambizione politica. La disfatta della cinica operazione ha sancito la fine politica di Cameron, a vantaggio di quegli stessi avversari interni (Boris Johnson) che puntava a sgominare.
Al di là degli scopi politici di Cameron, la campagna per il remain ha selezionato e raccolto attorno a sé il fiore della grande borghesia britannica: il cuore della City londinese, la principale piazza del capitale finanziario europeo; la grande borghesia industriale (l’80% degli aderenti alla Confindustria britannica ha aderito alla campagna); la maggioranza delle Camere di commercio (sia pure con una percentuale minore). La ragione del sostegno borghese maggioritario al remain è molto semplice: la UE rappresenta il 45% delle esportazioni del Regno Unito. Una uscita della Gran Bretagna dalla UE significa la rinegoziazione dell’accesso al mercato unico, in condizioni presumibilmente più difficili.
Per ragioni di classe complementari, la permanenza della Gran Bretagna nel Regno Unito era la speranza del grosso del capitalismo mondiale, delle grandi borghesie europee e dei loro governi nazionali, interessati ad evitare sia i contraccolpi economici della Brexit sul mercato finanziario, in una situazione già critica; sia un nuovo possibile fattore di incoraggiamento delle spinte centrifughe nell’Unione. Ma era la speranza anche degli Stati Uniti, da sempre alleato storico privilegiato della Gran Bretagna. La permanenza del Regno Unito nell’Unione rispondeva a molteplici interessi USA: preservare la principale piattaforma finanziaria delle proprie multinazionali e banche sul mercato europeo; mantenere una propria sponda politica fidata all’interno della UE; favorire una tenuta dell’Unione quale fattore di contenimento della crisi capitalistica mondiale ed anche possibile alleata ai fini del controbilanciamento della potenza cinese (accordi TTIP). Per tutte queste ragioni è indubbio che la vittoria della Brexit contraddice gli interessi dominanti del capitalismo internazionale. Il crollo delle borse di venerdì, proporzionale al loro investimento sulla permanenza nell’UE, è un primo metro di misura del contraccolpo subito.
BREXIT COME VITTORIA DEI LAVORATORI E DELLA DEMOCRAZIA?
Ma è perciò stesso la Brexit una vittoria dei lavoratori e della democrazia?
Colpisce il sostegno entusiasta alla Brexit di forze diverse della sinistra europea (e non solo). Come il tripudio ideologico per la sua “vittoria”.
La campagna a favore della Brexit è stata ispirata e diretta dalle forze politiche più reazionarie del panorama inglese. Dallo UKIP xenofobo di Farage, alleato del M5S nel Parlamento europeo. Dai movimenti fascisti della Gran Bretagna. Dalle bande ostili a Cameron nel Partito Conservatore e nel governo stesso. Il tono ideologico della campagna è emblematico. Da un lato la campagna ossessiva contro i migranti: contro gli immigrati comunitari (inclusi i tanti giovani e lavoratori italiani emigrati) e la loro “pretesa” di diritti sociali; e tanto più contro i migranti extracomunitari e la loro presunta “invasione”, a partire dall’immagine simbolo dell’accampamento disperato di Calais, rappresentato come avamposto minaccioso della UE ai confini della patria. Dall’altro, la rivendicazione del peggiore sciovinismo all’insegna della nostalgia del vecchio impero britannico e della grande potenza inglese nel mondo. «Una grande potenza imperiale che potrebbe tornare a risorgere, se solo la gran Bretagna si liberasse della Unione Europea», ha testualmente annunciato Farage.
Anche settori della borghesia inglese si sono allineati al fronte della Brexit, a partire da un consistente settore delle Camere di commercio. Ai quali Boris Johnson si è così rivolto: «Noi potremo fare accordi con le economie emergenti del mondo intero, accordi che la UE è incapace di siglare a causa delle forze protezioniste europee. Liberiamoci delle catene dell’Unione.» (Le Monde). È la (improbabile) promessa al capitalismo britannico di un autonomo aggancio al mercato cinese aggirando l’Unione Europea e il suo contenzioso con la Cina. L’appello al libero mercato mondiale e alla sue umani sorti e progressive si combinava dunque col vezzo ideologico nazionalista, dentro un comune impasto reazionario.
UNA MINACCIA REAZIONARIA CONTRO I LAVORATORI
La vittoria di questo fronte reazionario è una minaccia per i lavoratori britannici e per il movimento operaio europeo.
Certo, un settore di classe lavoratrice e la maggioranza della popolazione povera delle periferie e delle campagne sono stati catturati dalle sirene della Brexit. La rabbia sociale accumulata dalla crisi capitalista e dalle politiche di austerità è stata dirottata con successo contro l’Unione Europea. Il ritorno mitologico alla “vecchia potenza inglese” è stato venduto come canale di riscatto sociale ed emancipazione. Ma si tratta di una cinica truffa, oggi rilanciata su scala continentale da tutti gli ambienti politici più reazionari d’Europa, a partire da Le Pen e Salvini.
Il capitalismo britannico e la sua sovrana sterlina non sono meno responsabili dell’Unione Europea per la miseria crescente dei lavoratori inglesi. Ben prima della UE, fu il governo – nazionalista – di Margaret Thatcher (quello che brandì la guerra all’Argentina sulle Malvinas) a realizzare il grande sfondamento liberista contro il movimento operaio (guerra ai minatori) e l’attacco frontale allo stato sociale. Blair e Cameron, nel quadro della UE (ma fuori dall’Euro), hanno amministrato la continuità devastante di quella politica, che Farage, già nelle vesti di deputato conservatore, e tanto più Boris Johnson, hanno fedelmente e attivamente sostenuto. Oggi proprio Boris Johnson, astro nascente della Brexit, si candida a gestire una nuova pesante stagione di austerità contro i lavoratori inglesi, e una stretta discriminatoria xenofoba contro gli immigrati. Naturalmente nel nome di “Britain First” e della guerra tra poveri. Presentare tutto questo, a sinistra, come “vittoria della democrazia” e come “esempio per i popoli europei” significa aver perso la testa.
CONTRO L’UNIONE EUROPEA, PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D’EUROPA
Siamo da sempre contro l’Unione Europea. Una Unione di stati capitalisti unicamente interessati a partecipare alla spartizione del mondo dopo il crollo dell’URSS, nel nuovo mercato globale. Per questo interessati a concertare le proprie politiche di rapina contro i propri lavoratori. Per la stessa ragione ci siamo sempre opposti e tanto più ci opponiamo oggi alle illusioni di una possibile UE “democratica e sociale”, portate avanti dai partiti di Sinistra Europea (Syriza, Rifondazione Comunista, Izquierda Unida, Die Linke, PCF…). Partiti che si sono ciclicamente compromessi nei diversi governi borghesi dell’Unione Europea gestendo le stesse politiche di austerità e di rapina che dall’opposizione dicevano di combattere. La capitolazione di Tsipras alla troika è solo l’ultimo esempio del fallimento del riformismo europeista.
Ma la lotta contro l’Unione Europea può procedere da opposti versanti, politici e di classe, e mirare ad opposte prospettive.
Può procedere dal versante dell’opposizione di classe del movimento operaio, a difesa delle proprie ragioni e diritti sociali. Come ha mostrato la lunga ascesa del movimento di massa in Grecia contro la troika prima del tradimento di Syriza. Come mostra oggi la mobilitazione di massa prolungata ancora in corso in Francia contro la Loi Travail del governo Hollande. Questa è la dinamica di lotta che ha valore progressivo, che può unire gli sfruttati, che può ricomporre attorno alla classe operaia un blocco sociale anticapitalista, che può alimentare una solidarietà di classe internazionale tra i lavoratori d’Europa. La proposta di una Europa socialista, nella forma degli Stati Uniti socialisti d’Europa, è l’unica proposta strategica capace di dare una prospettiva storica a questa dinamica di lotta. L’unica che può indicare un’alternativa reale all’Unione Europea del capitale, nell’interesse dei lavoratori.
La lotta contro l’Unione Europea e contro l’Euro oggi indicata dalla Brexit, e promossa dai Farage, Le Pen, Salvini, è non solo diversa, ma esattamente opposta. È la lotta che mira a far leva sulla crisi capitalista, e sulla mancata risposta del movimento operaio alla crisi, per costruire uno sbocco reazionario, in ogni paese e su scala continentale. All’insegna della continuità delle politiche di rapina, e di un nuovo drammatico appesantimento dell’offensiva dominante contro i diritti sociali, sindacali, democratici del movimento operaio europeo e di tutti gli oppressi.
Ogni subordinazione a questa dinamica reazionaria va apertamente denunciata e combattuta, tra le fila dei lavoratori, tra i giovani, in ogni organizzazione sindacale e di massa.
Partito Comunista dei Lavoratori
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